Verità e finzione sono elementi intercambiabili del Romanzo di B. Sono sfumature, gradienti di colore dalle tonalità ipnotiche. Balotelli al Milan? E qual è il problema? "Mela marcia" fino a due settimane fa, oggi l'attaccante della nazionale è arruolato, volente o nolente, nella truppa elettorale di sua maestà. Che si sa, di cultura politica si è sempre curato pochissimo, ma in compenso la sa lunga sugli umori di certi italiani, che se sono duri a digerire la democrazia, per contro dimostrano di apprezzare i suoi colpi a effetto da pifferaio magico. Puoi dire tranquillamente che "Mussolini era una brava persona" e "L'Italia ha avuto responsabilità marginali in merito all'Olocausto", tanto nel giro di qualche giorno sarà tutto dimenticato, ma guai a non fare l'acquisto col botto sul finire del mercato di riparazione. Le affermazioni indecenti possono essere obliate con un paio di smentite e qualche passaggio televisivo, l'acquisto di Mario Balotelli rimane, e fa pronta cassa in termini di popolarità e voti. Ecco, a me non piace tanto il paese che emerge da questo tragico raffronto: la cartolina che ci giunge in tavola è delle più desolanti circa le prospettive che ci attendono. Un paese che minimizza il fascismo, accetta senza colpo ferire il revisionismo d'accatto e in più plaude al conflitto d'interessi incontrollato che sottende l'acquisto di Balotelli a me fa spavento. Ma non mi scandalizza. Se B. è riuscito ad essere svariate volte Presidente del Consiglio un motivo ci sarà; se è riuscito a sopravvivere a se stesso anche questa volta, e senza cambiare di una virgola i soliti sproloqui su tasse, comunisti, Costituzione da manomettere, significa che questo paese in fondo non vuole cambiare. Sta bene com'è. Cambierà qualcosa, forse, quando la maggioranza degli italiani pretenderà le dimissioni di un suo rappresentante che si esprime in quel modo nel Giorno della Memoria e alzerà le spalle quando lo stesso individuo tenterà di stupire la platea con un colpo mediatico. Per certi personaggi, l'indifferenza è la peggiore delle umiliazioni.
una foto un racconto
giovedì 24 gennaio 2013
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Il cadavere è lì adagiato ai piedi di una colonna; una coperta cenciosa riveste la sagoma di ciò che resta di un clochard, di una persona, di un essere umano. A mezzo metro, la colazione con caffè e brioche in un bar elegante, il banale di una mattina come tutte le altre, cappuccino e giornale, chiacchiere e qualche sms. Ha qualcosa di straniante la fotografia giunta ieri dalla Napoli bene. Qualcosa di violento e insieme gelido, come la miscela di freddo e abbandono che ha annientato la vita di quell'uomo sotto la coperta. E' un'atmosfera irreale, ma insieme familiare: è il ritratto della borghesia in esterno, una novella Golconda magrittiana coniugata nel gerundio italiano; le due facce, vita e morte, benessere e miseria, sicurezza e sopravvivenza, sono lì che ci guardano, in attesa di una risposta. Chi può ci mangia sopra un cornetto che tanto la vita continua. Un energico e prepotente "'sti cazzi" che spiega forse più di tante diagnosi sociologiche la deriva italiana e la dissipazione della cosa pubblica, uno sciupio allegro e solare che ha corroso le fondamenta morali del paese nel sostanziale disinteresse della maggioranza. Arrivano oggi dichiarazioni delle autorità che smentiscono l'accusa di indifferenza: sembra che all'uomo poi deceduto sia stato offerto soccorso, e che questi l'abbia rifiutato. Non c'è motivo di dubitare che sia andata così. E ci sono per contro molti motivi che rendono problematica e qualche volta ingannevole la lettura di una fotografia. Che raggela l'attimo, condensa un complesso di pensieri, azioni, omissioni tutto lì, tutto in un momento. Eppure nemmeno l'ambivalenza di uno scatto riesce ad annullare la spietata oggettività del reale, con quel tragico, cinico doppio: vita morte, benessere miseria.
romanzo radicale
sabato 19 gennaio 2013
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Qualcuno dovrà scriverlo prima o poi
un romanzo radicale. Non mi candido a farlo. Ma di materiale ce ne
sarebbe a iosa, con tutti gli ingredienti necessari. Le
contraddizioni e le passioni che renderebbero superfluo qualsiasi
surplus romanzesco. I radicali bastano a sé, nel bene e nel male.
Una parabola repubblicana sincera, un unicum nella storia di questo
paese che però è anche italiano come pochi altri: storia di
coraggio e anticonformismo unita a tradimenti e opportunismi,
pretoriani libertari fedeli fino alla fine e voltagabbana trasbordati
direttamente dai referenda su divorzio e aborto alle sottane dei
preti.
C'è spazio per tutto nella cronaca
esistenziale di un partito che prima di tutto è stato un'idea: di
laicità, di libertà, di ideali. Non a caso, un partito nato dal
sentimento di intellettuali di razza, come Ernesto Rossi e Mario
Pannunzio, che dello sdegno seppero fare un progetto politico basato
solo e soltanto su questioni di principio. Forse per questo il
Partito Radicale è sempre stato un partito povero, uno dei pochi a
non praticare il gioco delle tre carte e a sopravvivere grazie ai
bilanci ritoccati con il bianchetto. E forse per questo è sempre
stato un partito ammirato, qualche volta invidiato, ma mai un partito
veramente votato. Perché radicale, appunto. Poco incline ai
compromessi, anche se di compromessi viventi, allignati tra le sue
fila, nel corso del tempo ce ne sono stati parecchi: alfieri della
laicità dello Stato e della liberalizzazione delle droghe che poi si
sono riversati in massa nei peggiori luoghi comuni del conformismo
ecclesiastico o nella malia berlusconiana, di fatto il segno
antitetico rispetto all'integrità radicale.
Ma di segni, in questo movimento,
partito, manifesto perenne, ce ne sono stati tanti. La mobilitazione
sul tema dei diritti civili, sulla legge 194, sul divorzio, sul tema
del sovraffollamento delle carceri (questione della quale tutti gli
altri partiti se ne sono allegramente fregati) è stata grande e
impavida, specie in un paese spesso ipocrita e bigotto come il
nostro; per contro, il Partito Radicale non ha mai saputo togliersi
di dosso una certa inconcludenza politica, un'incapacità strutturale
a capitalizzare in termini elettorali e di governo il sudore versato.
E' un grande limite, perché l'utopia a oltranza è qualcosa di più
di un simpatico difetto. Poteva avere un seguito in altre epoche, ma
in anni cinici come i nostri difficilmente può portare a qualcosa.
E così, l'ennesimo strappo. Pannella
che si apparente con l'estrema destra della Destra. Una mossa della
disperazione, un arrocco che forse qualcuno, magari Pannella stesso
in un momento di maggiore lucidità, definirà una provocazione, ma
che per il momento segna una tappa in triste coerenza con la pulsione
autolesionista che in fondo sta alla base del partito.
Siamo di fronte alla fatiscenza, senza
dubbio, ma in una modalità forse meno folle di quanto si pensi. La
pratica del gioco al massacro fa parte della vis pannelliana del
partito: le nudità esposte, gli scioperi della fame a vanvera, la
vecchiaia esposta senza ritegno sono tutte armi dialettiche di un
certo modo alla Pannella di intendere la missione del partito.
Coerenti a livello di logica interna, incomprensibili sul piano del
sentimento popolare. E questa tensione tra forze opposte – il
rigore intellettuale e le piazzate – che è stata per tanto tempo
il motore del partito, ora che la legna da ardere è finita rischia
solo di disperdere tutto ciò che i radicali hanno rappresentato nel
corso del tempo, più forti di figliastri traditori e congiure di
palazzo.
Se il movimento riuscirà a
ricompattarsi su un nucleo di pensiero traducibile sul piano
politico, allora avrà ancora senso di esistere. Altrimenti questo
strappo (leggo che Emma Bonino giustamente non ci sta ad apparentarsi
con l'estrema destra) rischia di essere il colpo di grazia, e una
fine che per quanto negativamente suggestiva non fa che conferire un
alone di ambiguità ideologica ad una storia che nel corso di tante
legislature si era sempre mantenuta dura e pura.
Dal punto di vista narrativo, un colpo
di teatro conclusivo più che degno, dal punto di vista politico e
storico una contraddizione che probabilmente supera di gran lunga i
confini della provocazione. Bisogna vedere, in altri termini, se la
pannellizzazione del partito divorerà quel che resta dell'eredità
radicale, o se invece ci saranno dirigenti con altrettanta
personalità e chiarezza di idee che sapranno impedire a Crono di
divorare i suoi figli.
e tutto il resto?
mercoledì 16 gennaio 2013
Pubblicato da
Ariberto Terragni
La malia tecnocrate non è passata sul campo della politica italiana senza conseguenze. La più vistosa, se posso permettermi, è quella di aver condizionato in modo pesante e univoco gli argomenti della campagna elettorale, che sì sono sotto molti punti di vista obbligati, ma che in questa tornata sono stati addirittura esclusivi. In pratica l'unico tema presente è l'economia. Non c'è altro che tenga banco. Ognuno con la sua ricetta, ed è curioso notare come diversi cuochi - B da Arcore in primis - siano tra i principali artefici del disastro politico finanziario che trascinò l'Italia a un passo dal fallimento. Ma è roba di tredici, quattordici mesi or sono: tradotto in italiota un'era geologica fa. Ed è così che ognuno può dire la sua: tracciare strategie, disegnare scenari. Le informazioni fornite in dibattiti e dichiarazioni sono spesso astruse, in qualche caso contraddittorie, ma fa niente, tanto è vero tutto come non è vero niente. Il punto è che è difficile stabilire un criterio: sono argomenti tecnici che solo in pochi padroneggiano, e che tante volte nemmeno i politici stessi hanno ben presenti. Figurarsi la media dei cittadini. Chi è europeista, chi è liberista, chi sbraita di tornare a battere moneta in proprio. Ma sì. Come per la nazionale di calcio, ognuno, nel tabernacolo del proprio tinello, è convinto di saperla lunga. Ma ogni certame ha il suo tema principe, e l'economia ha sempre e giustamente occupato un posto di rilievo, solo che mentre in altri luoghi e altre epoche il suo ruolo era ancora quello di strumento, ora è passata ad essere materia autoriferita e autosufficiente. Chi se ne frega dei diritti, della sicurezza, dell'integrazione, della salute, della cultura. Per paradosso, potremmo dire che persino il lavoro, inteso come mezzo di realizzazione di sé, non ha alcun peso nelle parole della classe politica, salvo rarissime eccezioni; ha senso il lavoro come fattore economico. E si sa che il fattore economico è del tutto disinteressato al fatto che chi lavora siano uomini e donne: se si parlasse di frigoriferi e bulloni sarebbe la stessa cosa. L'economia così come ci viene presentata in questi anni non ha niente più a che vedere con la "legge che regola la casa" (definizione etimologica): manca sia la legge che la casa che chi la abita.
telepsicovision
mercoledì 9 gennaio 2013
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Era chiaro che l'ubriacatura da internet avesse le ore contate, e che la televisione, con tutto il suo peso psicopolitico, si sarebbe imposta con pachidermica imponenza nelle trame dei flussi elettorali. Va bene le primarie, va bene il movimentismo via web, ma quando le cose si fanno sul serio, allora ci si fida della televisione e dei suoi santuari: talk, dibattiti, giornalisti talvolta compiacenti, ridda di affermazioni dette e contraddette, proclami, populismo. E i risultati omologanti e in questo senso rassicuranti della tv non sono una sorpresa, anzi: sono la paciosa conferma che tutto va come è sempre andato, al punto che non solo B. è più presente che mai (dire vivo sarebbe troppo) con tutto il suo armamentario da piazzista, ma perfino il compassato e ingrigito Professor Monti è stato costretto ad adeguarsi alla danza, berlusconizzandosi, assumendo cioè le pose del populismo facile sulle tasse (in tono minore però, vanno ridotte un pochino) e sobbarcandosi lo stakanovismo televisivo, da un salotto all'altro, senza tregua. E anche lui si sente in dovere di trattare, di dare qualcosa a tutti, promettere, consentire, illudere. E nell'offrire uno sfondo, la televisione resta imbattibile, perché sa essere invasiva e subdola come nessun altro mezzo di comunicazione: a pranzo, mentre la massaia spadella, a cena, mentre il ragioniere ingolla la pastina. E poi tutto il giorno, lo schermo ha sempre la sua televendita da fare, il suo spazio autogestito da vendere come libera informazione. E in un paese come il nostro, arretrato, il messaggio più efficace resta quello più superficiale, perché l'italiano medio che fino a una settimana fa urlava dalle piazze ladri ladri vergogna vergogna, ora è lì che compra, e vota. E così B. recupera - incredibilmente, in un paese civile - terreno, la Lega è ancora in pista e i vari gruppi di pressione si sono ammassati al centro, in farinosi partitini arraffa briciole. La memoria corta degli italiani fa il resto: ogni quarto d'ora c'è un reset generale, un grande blackout che è anche il ritorno alla verginità di amministratori, imprenditori, uomini di partito già ampiamente deflorati, ma sempre pronti a darsi come il nuovo, anche quando sono sempre le stesse passeggiatrici che hanno solo ritoccato la tariffa.
professor Sintassi
mercoledì 2 gennaio 2013
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Il linguaggio politico italiano ha sempre cercato di rendere a parole il vuoto, dalle famose "convergenze parallele" fino al buffonesco "meno tasse per tutti" di più recente memoria. L'esercizio retorico ha una sua nobile radice storica nel pensiero classico, da Platone ad Aristotele, fino alla pratica politica di Robespierre e Danton. Tutto bene, almeno fino a quando il groviglio di suoni e concetti non finisce per staccarsi dall'oggetto di cui la politica dovrebbe occuparsi: i cittadini e la società. Nelle ultime settimane lo slittamento delle trame oratorie dei politici italiani ha avuto un brusco scossone, uno smottamento di entità consistente. Le parole del presidente Monti rappresentano un imponente monumento alla sintassi, un andirivieni di sfumature, sinonimi, glosse, rimandi, messaggi impliciti. La squallida prosa di un Berlusconi, tanto per dire, tutta banalità e slogan, impallidisce di fronte agli arabeschi del Professore, che è capace di velare il proprio pensiero dietro una cortina talmente fitta di fumogeni verbali da rendere impossibile una comprensione univoca da parte di chi ascolta. Ascoltandolo e riascoltandolo, leggendolo e rileggendolo, si capisce che in realtà non esiste un bandolo: le parole sono concatenate le une alle altre per pure e impeccabili esigenze grammaticali, le proposizioni si susseguono morbide e intricate, ma senza un vero peso specifico: nelle loro ampie e soffici volute sono e restano leggere, prive di peso. Potrebbe andare avanti per ore, il Professore, e non riuscirebbe a chiarire un bel niente, ma solo a lavorare altra tela, a tessere nuove ipotesi e nuovi scenari di senso che l'uditore potrebbe intendere almeno in due o tre o quattro modi diversi. La lentezza, i modi pacati, la cadenza soporifera fanno il resto. Si sa che in Italia se uno è ritenuto autorevole lo è per sempre. E sotto la densa coltre di enigmi lessicali che il Presidente cucina per noi ad ogni suo intervento, serpeggia uno spettro antico, e molto italiano: dire e non dire, in conformità con quello standard intellettuale che si è assestato a metà strada tra Machiavelli e la Democrazia Cristiana. Un luogo dove tutto è reversibile, tutto è al tempo stesso detto e non detto, fatto e non fatto. Soprattutto, "né di destra né di sinistra". I ragionamenti della nostra nascente intellighenzia approdano tutti ad un bianco neutro dove la pagina è sempre bianca, e niente è come sembra, perché ogni cosa è al tempo stesso vera e falsa, presunta e certa.