Se devo scegliere una caratteristica, tra le tante che un presidente del consiglio dovrebbe possedere, ne scelgo una che è di ordine politico e morale al tempo stesso: il saper dare dignità alla povertà. Povertà che non è miseria o peggio ancora accattonaggio, ma la dimensione dell'uomo che lotta per vivere in modo dignitoso, privato del superfluo ma desideroso di potersi mantenere al di fuori della carità di Stato. Perché ho paura sarà la povertà il grande tema dei prossimi anni, il tema non detto, inconfessabile, il fantasma che inquieta i sonni di tanta classe media che ora si vede corrodere diritti e privilegi, potere d'acquisto e gusto del di più. Gestire la povertà è una questione politica, e per una ragione molto semplice: la tecnica non prevede povertà, o al massimo la intende come una forma di inefficienza, una voce al passivo frutto di errori e incompetenza. Non ne può percepire il valore umano, la carica simbolica. Il governo Monti non è strutturalmente adeguato a prendersene cura, nonostante il sovradosaggio cattolico (o calvinista?) con cui ha irrobustito la sua legittimità e sdoganato gli aspetti più crudi e oltranzisti del suo operato: la presunzione di governare secondo criteri puramente oggettivi (in primis la necessità) diventa il paraocchi che impedisce di cogliere quanto di disarmante e inquietante serpeggi nella società che sta fuori dai dipartimenti universitari e dalle aule parlamentari. La rinuncia al welfare coincide in modo fin troppo programmatico con la decisione ideologica di annettere la solidarietà sociale alle fluttuazioni del mercato: se la scommessa di puntare tutto sul consolidamento del presente sistema economico andrà bene, bene, altrimenti ancora non si sa. L'ipotesi di ripensare l'economia in chiave di sostenibilità e giustizia sociale non appartiene agli orizzonti della tecnica, che in quanto pratica autoriferita non vede soluzioni al di fuori delle modalità che conosce. Ed è un peccato che potrebbe diventare un grave errore strategico.
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