In uno dei tanti e tutti uguali telegiornali generalisti, colgo come d'incanto la frase: "Per effetto della crisi purtroppo anche gli sprechi diminuiscono." Ed è così che in un sonnolento pomeriggio natalizio finisce per materializzarsi, nell'ingenua forma di un servizio riempitivo, la prodigiosa inversione di senso: il vero peccato (religioso e laico) non è sprecare, ma non sprecare, privarsi della gioia di sbattere nel cesso il di più che non ci garba. Ecco il segno dei tempi. E la televisione, per istinto, per fiuto dello sciatto, annota meticolosa, con quella sua vocina querula. Ma come spesso accade, la voce degli stolti sa essere più puntuale di altre a verbalizzare senza pudore la realtà dei fatti: il rimpianto per lo spreco che fu fotografa le circostanze del presente senza tanti giri di parole, senza alcuna ipocrisia, e riesce a farlo proprio perché mette da parte ogni forma di ragionamento. E versando sugli avanzi del cappone questa frase becera, illumina il vero senso dell'economia su cui la nostra società si è fondata in tanti anni, un'economia fatta di sprechi e di eccedenze, dove la sovrapproduzione di beni trovava sfogo nel consumo a vanvera. Delle tante e spesso drammatiche letture che si possono fare di questi anni di crisi, la televisione ha scelto la più vicina al suo modo di essere: quella più banale e innocua, e forse per questo motivo anche la più feroce. Tanto en passant nell'intrufolarsi tra il panettone e il caffè, quanto vera come solo un calcio nello stomaco sa essere: e se per un attimo riusciamo ad andare oltre al contesto mediatico stupido e incolore, forse possiamo capire come una frase del genere in realtà abbia a che vedere con ciascuno di noi, con quel meraviglioso diritto acquisito di non aver bisogno.
cercasi destra
mercoledì 19 dicembre 2012
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Tra i tanti fallimenti della politica italiana ce n'è uno che ha richiesto un prezzo particolarmente alto: è la sconfitta culturale e morale della destra. Una catastrofe che prende le mosse dall'aver abdicato a qualsiasi forma di valutazione critica di sé e del mondo, alla ricerca della scorciatoia, del colpo elettorale, del populismo a oltranza. L'aver accettato il berlusconismo come parametro politico ed esistenziale ha ridotto la destra italiana a non esistere più a livello di idee, ma solo a livello di opportunità e consumo. La progettualità, l'impegno, l'onestà che la buona politica di ogni colore richiede sono stati dileggiati in questi ultimi vent'anni: lo smantellamento sistematico delle regole a cui la destra si è accodata ha portato al nulla di oggi, un nulla dove non esiste leadership, non esistono programmi, non esiste un retroterra culturale al quale attingere, proprio perché l'impostazione ideologica (non trovo altre parole per definirla) che ha caratterizzato l'area dei conservatori dal 1994 ad oggi ha fatto di tutto per negare l'importanza della cultura e dell'impegno sociale come dati fondanti dell'azione politica. Dov'erano gli intellettuali di destra? Dove sono? Ci sono ancora? Io non ho visto alzate di scudi e vesti stracciate quando i sondaggi davano il quaranta percento e l'illusione cialtrona del benessere facile faceva vincere le elezioni con maggioranze bulgare. Non ho visto ribellioni quando in parlamento si votavano le peggio leggi a colpi di maggioranza e tutti i giornali del padrone celebravano "il governo del fare" e altri slogan da Minculpop. Lo zero di oggi rappresenta il risultato di una serie di sottrazioni che nel tempo hanno spolpato il linguaggio e i contenuti di una parte politica intera, che per comodità, pavidità, accidia o che altro si è abbarbicata acriticamente sulle esigenze di un proprietario. Non è lecito lamentarsi ora, e non è lecito nemmeno stupirsi se la destra italiana è rappresentata in questo modo, un modo che non consente nemmeno di organizzare delle primarie decenti in proprio. Ulteriore fallimento.
di nuovo?
mercoledì 12 dicembre 2012
Pubblicato da
Ariberto Terragni

il tecnico e il povero
mercoledì 5 dicembre 2012
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Se devo scegliere una caratteristica, tra le tante che un presidente del consiglio dovrebbe possedere, ne scelgo una che è di ordine politico e morale al tempo stesso: il saper dare dignità alla povertà. Povertà che non è miseria o peggio ancora accattonaggio, ma la dimensione dell'uomo che lotta per vivere in modo dignitoso, privato del superfluo ma desideroso di potersi mantenere al di fuori della carità di Stato. Perché ho paura sarà la povertà il grande tema dei prossimi anni, il tema non detto, inconfessabile, il fantasma che inquieta i sonni di tanta classe media che ora si vede corrodere diritti e privilegi, potere d'acquisto e gusto del di più. Gestire la povertà è una questione politica, e per una ragione molto semplice: la tecnica non prevede povertà, o al massimo la intende come una forma di inefficienza, una voce al passivo frutto di errori e incompetenza. Non ne può percepire il valore umano, la carica simbolica. Il governo Monti non è strutturalmente adeguato a prendersene cura, nonostante il sovradosaggio cattolico (o calvinista?) con cui ha irrobustito la sua legittimità e sdoganato gli aspetti più crudi e oltranzisti del suo operato: la presunzione di governare secondo criteri puramente oggettivi (in primis la necessità) diventa il paraocchi che impedisce di cogliere quanto di disarmante e inquietante serpeggi nella società che sta fuori dai dipartimenti universitari e dalle aule parlamentari. La rinuncia al welfare coincide in modo fin troppo programmatico con la decisione ideologica di annettere la solidarietà sociale alle fluttuazioni del mercato: se la scommessa di puntare tutto sul consolidamento del presente sistema economico andrà bene, bene, altrimenti ancora non si sa. L'ipotesi di ripensare l'economia in chiave di sostenibilità e giustizia sociale non appartiene agli orizzonti della tecnica, che in quanto pratica autoriferita non vede soluzioni al di fuori delle modalità che conosce. Ed è un peccato che potrebbe diventare un grave errore strategico.