Sì, va bene il merito, sì, va bene la meritocrazia, che è un concetto un po' nebuloso ma va bene lo stesso. Svecchiamo, rompiamo i vecchi clientelismi, ci sto. Il fatto è che quando una parola subisce l'ormai collaudato trattamento da tritacarne, subito, in automatico, i miei recettori si attivano, e comincio a sospettare. Vuoi vedere che questo fastidioso neologismo - meritocrazia - è un altro slogan? Forse la politica, compreso il nuovo che avanza Matteo Renzi, confida nella proprietà magica delle parole; loro le parole le evocano, e poi si vedrà: magari qualcosa succede, o forse non succede niente, tanto è lo stesso, l'importante è che se ne parli e si crei confusione, tanto la differenza tra uno slogan e la sua ricaduta in campo pratico difficilmente qualcuno andrà a verificarla. E poi se proprio devo dirla tutta questa meritocrazia mi suona male: chi giudica chi è meritevole? Politici, imprenditori, chi? I padroni di ieri che hanno portato al collasso l'Italia? I nuovi tecnocrati che vogliono farla diventare una catena di montaggio con tanti addetti schiavi e felici? A me non piace questa parola. E' insincera, è voluta dai padroni, è imposta dall'alto; non viene da una storia, non ha delle radici. Il concetto di merito può essere manipolato, travisato fino a farlo coincidere con la capacità dell'individuo di aderire ad un modello autoritario: se accetti qualsiasi cosa e non fiati sei meritevole, se dici di no, se accampi diritti, se pretendi di rimanere una testa pensante, allora non lo sei più. E che fine fa l'immeritevole nella società meritocratica? Se il parallelo funziona, dovrebbe essere la stessa del regicida nella monarchia, una fine da Bresci, da Passannante. Naturalmente non ho la verità in tasca. Il mio è solo un sospetto. Ma il sospetto che questa meritocrazia sia un'altra gabbia da sommare a tutte le altre gabbie che il sistema economico impone sull'individuo, diciamo, è molto forte.
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