Mi ripropongo spesso di scrivere qualche cosa di compiuto in merito all'opera di un grande come Francesco De Gregori, un uomo, un artista (per brevità chiamato...) al quale devo molto. Quello dell'approccio critico nei confronti della sua opera è un progetto che ancora non riesco a realizzare. Non ci riesco forse per troppo pudore. Al massimo, come in questo momento, posso abbozzare qualche nota, ma ancora niente di più. Il fatto è che ieri era ho riascoltato, dopo un po' di tempo, una carrellata dei suoi brani e ogni singolo passaggio riesce sempre a farmi pensare. Ho cominciato ad ascoltare la sua musica a dodici anni, forse anche prima, visto che ha cominciato mia madre a cantarmi le sue canzoni, ma è stato a dodici anni che ho cominciato a realizzare il potere immaginifico della sua parola. La parte della sua parabola a cui sono maggiormente legato è quella anni Settanta, e non sono il solo, ma non sarebbe giusto relegare il resto della sua produzione ad un esercizio commerciale. Il famigerato disco della pecora, che in realtà si intitola Francesco De Gregori, è forse quello a cui più sono legato. Ci sono canzoni come Bene, Dolce amore del bahia, Informazioni di Vincent. Lo stesso Principe dice di ritenerlo il suo album peggio riuscito, e va bene così, fa parte del gioco e del diritto ad avere delle preferenze. Ma mi permetto di non credere fino in fondo alle sue parole. Forse è stato solo uno dei più sofferti, chi lo sa.
La canzone d'autore è o no poesia? Non lo è: è canzone d'autore, il che non significa sminuirla o relegarla ad un sottogenere: semplicemente parliamo di due codici espressivi diversi. Diffidare dai commenti estasiati alla youtube: questa è vera poesia, meraviglioso, magico e tre milioni di puntini di sospensione. Non è così, con buona pace del popolo ecumenico. Il testo di una canzone non è autosufficiente, ma queste sono cose già dette milioni di volte. In assenza di una cultura poetica su vasta scala, la musica autoriale si è trovata, al di là delle sue stesse intenzioni, a supplire ad una carenza, a colmare un vuoto emotivo. Questa è un'altra storia ad ogni modo. Del resto gli stessi cantautori da De André a Guccini fino allo stesso De Gregori hanno sempre rifiutato l'etichetta facile e un po' scontata di poeta. La lunga parentesi cantautoriale ha comunque rappresentato uno dei vertici della canzone italiana, l'ha nobilitata, l'ha evoluta da un punto di vista culturale. Cultura, una parolaccia. Va di moda dire di parlare "come la gggente", di scarnificare il vocabolario per farsi capire. Uno sfascio dal mio punto di vista: la semplificazione che coincide con la banalizzazione. "Sono una ragazza semplice" male accidenti, molto male. La canzone d'autore si è sforzata di rompere il cortocircuito, e ci è anche riuscita per un certo periodo (Sanremo nei profondi settanta era una manifestazione fallita) salvo poi arrendersi all'evidenza di un'estesa mediocrità. Amen.
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