In altri tempi la generazione dei
trentenni sarebbe stata la punta di diamante delle forze in campo,
specialmente in un momento di crisi come questo; in una società
civile avanzata, in grado cioè di attivare virtuosamente delle
connessioni interne tra tutte le componenti del tessuto sociale, i
trentenni dovrebbero incarnare la parte del leone. Abbastanza giovani
da avere idee nuove ma già abbastanza scafati da non cadere nelle
trappole del giovanilismo. E' sempre stato così, in tutte le guerre
e rivoluzioni e relative ricostruzioni, da Giulio Cesare al boom
economico. Qualcosa invece non ha funzionato con i nati in Italia
negli anni Ottanta del Novecento. Sono gli ex vilipesi bamboccioni,
quelli che un decennio abbondante fa venivano tacciati di essere
pigri e mammoni. Sono i nati per ubbidire, inquadrati in un sistema
familiare, scolastico, istituzionale che ne ha sempre preteso la
fiducia incondizionata salvo poi abbandonarli e addirittura deriderli
nel momento del passaggio del testimone. Testimone che di questo
passo non avranno mai. Sono stati, siamo stati oggetto di un
moralismo a volte intollerabile, ma anche le prime vittime di un
debito pubblico abnorme lasciato in eredità da anni molto più
spensierati di quelli che abbiamo vissuto noi.
I trentenni italiani di oggi sono
mediamente la generazione che ha studiato più di tutte quelle
precedenti, che sa più lingue, che ha viaggiato di più, che si è
confrontata con un mercato del lavoro liquefatto e con una società
sempre più sfarinata e priva di puntelli protettivi. Sono i primi
soggetti sociali che hanno dovuto gestire i le conseguenze della
strategia della gradualità individuata da Chomsky, per cui, un
diritto alla volta, ci è stato tolto tutto o quasi l'essenziale.
Certo abbiamo avuto la possibilità di studiare (più o meno, visti i
tagli insensati e criminali a istruzione e cultura che si sono
perpetrati nei decenni come una violenza silente e ampiamente
tollerata dalle suddette Istituzioni), salvo poi renderci conto che
eravamo imbrigliati in un labirinto di carte, controcarte,
certificati, permessi, idoneità che hanno reso la vita di tanti un
percorso kafkiano, disperso tra concorsi, esami infiniti e ripetuti,
tesi, tesine e permessi che ci hanno resi eterni alunni di scuola
primaria in attesa della campanella. Ma nel frattempo siamo
invecchiati. E ancora adesso, in piena crisi Covid, i trentenni non
hanno voce. Non ce l'abbiamo perché non abbiamo un ruolo forte nella
società. Non ce lo siamo preso questo ruolo, si potrà obiettare. Ma
a meno di una rivoluzione di quelle cattive, nessuno lascia niente
agli altri. E così ci troviamo ancora una volta marginali se non
addirittura inesistenti. Non esiste un'avanguardia artistica espressa
dai trentenni. Non esiste un concetto di generazione, non abbiamo una
intellighenzia. Tutta la scuola nozionistica e ministeriale che
abbiamo fatto non si è risolta in una proposta culturale, non si è
risolta cioè nella capacità di trasformare la parola scritta in un
libro in un gesto di trasformazione della realtà. E questo dovrebbe
dirla lunga sulla validità del percorso paternalistico e frustrante
che abbiamo fatto finora. Il problema è che queste risorse latenti
ora non sono disponibili se non in forma rarefatta, frammentata, come
rarefatta e frammentata è la nostra consapevolezza come entità
collettiva e operante all'interno del corpo sociale. Siamo rimasti a
metà strada tra i nostri genitori, figli del '68 e del '77, e i
Nativi digitali. Il nostro momento non è mai arrivato. Stavamo
preparando l'ennesimo esame o eravamo in coda in un centro per
l'impiego, contenti di accedere alla dimensione demansionata del
nostro essere adulti, mentre la vita ci scorreva di fianco. Paganti
in tutti i sensi, ma senza rappresentanza. Un equivoco, ma anche un
danno per la comunità, ammesso che ne esista ancora una.
La vicenda Covid sta ponendo sul tavolo
molte questioni irrisolte, nodi al pettine che ora reclamano una
soluzione, ma da questo epocale redde rationem viene ancora
una volta meno la componente dei trentenni, che sono in panchina,
quando invece dovrebbe essere l'opposto. Non vedo altra soluzione se
non quella di assumere una rappresentanza prima di tutto culturale
che sappia liberare tutte le altre energie latenti di questa porzione
di società: classe imprenditoriale, artigianale, professionale. Ma
sono gli intellettuali i primi a doversi mettere in gioco, e non più
solo per raccogliere le briciole di una piccola e relativa gloria
personale, ma per attivare un discorso molto più ampio, di
condivisione ed energica proposta, in tutti i campi, in tutti i
settori. Di tempo ne è passato a sufficienza: il nostro
apprendistato finisce qui. Non vale più la truffa istituzionalizzata
del long life learning, è tempo di agire e di ritrovarsi in
un'ottica di radicale affermazione di questo tempo come del nostro
tempo. Reclamare una posizione culturale, creare un'avanguardia e
civilmente imporla è diventato un atto necessario e doveroso. La
ricaduta a pioggia sarebbe virtuosa in tutti i campi del sapere e del
lavoro, della società e delle professioni. Dalle ceneri di questa
tragedia è tempo che nasca una classe dirigente di trentenni.
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