Mi è stato ripetuto molte volte, nel corso del 2016 e anche prima, un semplice concetto. E' una frase ripetuta molto spesso dalla gente e in qualche modo amata dall'uomo della strada. "La tua generazione deve fare la rivoluzione, voi non fate niente e quelli si approfittano". Detta così suona quasi romantica: un invito alla ribellione, un invito al coraggio. Parole vuote, che non significano niente. Prima di tutto "loro" chi? Chi sono questi loro? I vecchi a cui paghiamo la pensione? I nostri genitori? Lo Stato? Le Istituzioni? L'Europa? Chi?
Punto secondo: cosa significa fare la rivoluzione? Lotta armata? Sedizione? Ci si inquadra, ci si organizza in forme paramilitari e parastatali, cosa? Questo paese ha già conosciuto tentativi più o meno manovrati e di lotta armata, e con quali risultati? Questo paese ha conosciuto intere stagioni di lotta politica estrema e dilaniante, dove è stato versato sangue vero, non simbolico. E con quali risultati? Cosa si intende esattamente per rivoluzione? Ne esiste una civile, contemplata dalle leggi?
Naturalmente no. Ma l'uomo della strada che incita alla lotta queste cose non le sa. Di solito non ha mai dovuto compilare un cv e non ha mai letto un libro in vita sua. Parla tanto per parlare, senza tenere conto delle conseguenze pratiche di queste frasi da autobus.
Parlo per me, ma penso che la mia esperienza personale possa essere estesa anche ad altri: siamo una generazione educata ad obbedire. Alla famiglia, alle Istituzioni (Scuola, Stato...), addirittura alla Chiesa, alla Religione. Il messaggio era chiaro: ubbidisci e andrà tutto bene. Passa tante e tante ore a scuola. Rispetta lo Stato, rispetta il Professore. Il problema è che non è andato bene niente. E passati i trent'anni ci ritroviamo con i cocci in mano e un simulacro di democrazia che non lascia presagire niente di buono: ancora sacrifici, ancora tagli, condizioni di lavoro sempre più disperate, scarsa rete sociale. In altre parole è possibile, ovviamente, una salvezza individuale, ma è da escludere qualsiasi salvezza collettiva, come accadeva una volta: con contratti di categoria, protezione sindacale, stato sociale, redistribuzione della ricchezza e mille altre tutele che oggi non esistono più.
Addirittura è resa complicata anche la possibilità di generare ricchezza, visto l'ammasso di tasse, leggi, impedimenti burocratici che strozzano sul nascere l'iniziativa di chi dal niente decide di creare qualcosa.
E in pagamento ci sono le offese della politica, che ha oltraggiato in mille modi milioni di italiani con la tipica arroganza del Potere autoriferito.
Quale rivoluzione allora? E fatta come? L'abitudine all'obbedienza ha dato luogo a pesanti equivoci, questo è certo. Ma ancora non posso fare a meno di interrogarmi sui limiti morali del rispettare la morale: cosa è giusto fare? E sono chiaramente domande che un rivoluzionario non dovrebbe mai porsi.
Ma nondimeno, posto che sia questa la ricetta risolutiva, che cosa significa "rivoluzione"? Temo che non lo sappia nessuno o che ognuno ne abbia un'idea diversa. Con intenti diversi, progetti diversi, quasi sempre incentrati sull'interesse personale. Altra conseguenza della società liquida e della riduzione di ogni istanza etica all'equivalente generale del guadagno economico individuale.
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