Vorrei provare a ragionare su un fatto:
la tendenza progressiva della società europea ad accentrare le
risorse economiche nelle mani di pochi e ad istituire, di fatto, una
società stratificata: gli ottimati garantiti che detengono il potere
economico e una gerarchia di classi subalterne, che non hanno quasi
diritto di parola, se non per mezzo di sfibrati e sempre più logori
sistemi democratici di rappresentanza.
Su che cosa si fonda la società
occidentale contemporanea? Bauman parlava di società liquida, quindi
inindividuabile, in continuo mutamento, senza una forma. Un'altra
tentazione potrebbe essere quella di considerare, nietschianamente,
l'occidente come il luogo di un nichilismo compiuto, prodotto da anni
di tecnicizzazione senza regole e alla fine autoprodotto dalla
tecnica stessa: luogo dell'indifferenziato e del tutto uguale dove
quindi qualsiasi istanza etica si invera nel suo esatto contrario.
Con il risultato di fondarsi sul niente: perfetto nichilismo.
Ma la deduzione non è così semplice.
Perché l'occidente non ha perso il gusto della narrazione: è questo
l'elemento che fa la differenza. Esiste cioè una realtà oggettiva
che è determinata dal dissolvimento dell'etica in favore di un metro
di giudizio che – se per motivi di opportunità e apparenza
politica non può essere direttamente il denaro – è la capacità
performativa: fare cose che portino ad un guadagno. La tecnocrazia è
una dimensione totalmente autoriferita, che non necessità di altri
punti di paragone. I soldi si spiegano da sé potremmo dire.
Ed esiste poi la narrazione-Europa: né
più né meno che un racconto dove si spiega come l'unione
commerciale e finanziaria di tanti paese abbia portato solo a
vantaggi, per il bene di tutti e nel nome di una solida democrazia.
Il punto, come in tanti hanno scritto tante volte, sta nel fatto che
questa fusione si sia svolta ignorando completamente l'identità
culturale europea, considerando solamente la mera funzione di scambio
di prodotti e circolazione di merci come paradigma principe della
nazione europea. In un orizzonte umano e comunitario (l'Europa, bontà
sua, si definisce comunità) può funzionare un contratto tra popoli
operato da banche, molte delle quali off-shore?
Il nichilismo della tecnocrazia ha
l'astuzia di raccontare se stesso come una grande opportunità: ma a
conti fatti questa opportunità si è rivelata per pochi. Rimando
alle statistiche di cui sopra: l'Europa presenta ampie e
insospettabili sacche di povertà. La ragione? La ricchezza è
distribuita male. In pochi hanno troppo, in tanti lavorano nella
terra di nessuno della subalternità e per finire una fascia
considerevole di persone appartenenti alla ricca Europa è sotto la
soglia di povertà, che in un continente ricco rappresenta un livello
di guadagno (si parla sempre e solo di soldi) sotto cui è
relativamente facile finire.
In senso pratico questo divario produce
un fatto molto concreto: la condanna di una grossa fascia di
popolazione e rimanere in una forma larvata e politicamente corretta
di schiavitù. Contratti deboli, precariato, disoccupazione: il costo
sociale dello sbando economico di questi anni ricade sui figli delle
famiglie con meno risorse economiche di partenza. Meno beni ereditati
significa minore possibilità di accedere a scuole e università di
prestigio, con la conseguente minore probabilità di trovare una
buona collocazione nel mondo del lavoro (e alimentando il circolo
perverso del precariato e della povertà vera e propria), ma anche
minore accesso a qualsiasi forma culturale in senso lato: dai corsi
di lingue alle attività sportive, dalle settimane bianche ai viaggi
di istruzione, accumulando un discrimine a mano a mano sempre più
incolmabile tra chi ha e chi non ha. Il discorso potrebbe essere
esteso alle cure mediche, con tutta una serie di conseguenze
facilmente intuibili. O in ambito legale, dove chi ha di meno potrà
permettersi collegi difensivi di minore spessore rispetto a chi ha di
più. E così via. E' una spirale a discendere. Una nuova forma di
modello feudale o, se si vuole, di colonialismo interno.
L'obiezione per cui è giusto che le
famiglie che hanno accumulato più sostanze nel tempo godano di
condizioni di vita tanto migliori rispetto agli altri è abbastanza
inconsistente e addirittura contraddittoria nel momento in cui si
volesse usare come argomento il libero arbitrio: la libertà o è
tale o non è libertà. Non esistono gradazioni di libertà. O
pensiamo che una comunità matura debba essere in grado di dare le
stesse occasioni di istruzione, cure mediche e aspettativa di vita al
neonato di Scampia e a quello nato in via Solferino, a quello nato ad
Atene e a Berlino, o il modello europeo ha fallito.
Nessun esproprio, nessuna azione contro
la proprietà privata, niente comunismo. Stiamo parlando di
redistribuire le ricchezze in modo più bilanciato. Perché se dati
alla mano una stretta minoranza di persone ha accumulato una
percentuale rilevante di risorse a discapito di una grossa
maggioranza per di più in tempi di crisi significa che il modello
democratico europeo è una chimera.
La narrazione, però, aiuta anche in
questo: la narrazione parla spesso di diritti, bambini, infanzia,
pari opportunità. Sono parole-maschera, parole come pervertimento
programmatico della realtà.
Viviamo in una società che considera
intollerabile dare uno schiaffo ad un bambino, ma alla domanda: è
giusto che questo bambino nato in una famiglia povera abbia enormi
possibilità in più di un bambino nato in una famiglia ricca di non
migliorare la sua condizione socio-economica? Risponde: così è la
vita.
E' il grande equivoco della società
morale sostituita dalla società economica. La società performativa
non può costitutivamente dare risposte di ordine morale: entra in
crisi, non ha argomenti o se ce li ha sono stereotipi, nella migliore
delle ipotesi contraddizioni come quella appena citata.
Il comunismo e il terzomondismo non
hanno niente a che fare con tutto questo. Sono false piste. Primo
perché il comunismo ha storicamente fallito, e in modo tremendo, e
il problema della redistribuzione del reddito non è un fatto
ideologico, ma una questione molto concreta sulla quale si giocherà
il destino d'Europa in termini di difesa dell'identità e di
successo/fallimento del processo di unificazione; secondo perché non
stiamo parlando del terzo mondo, ma del nucleo del ricco occidente.
Il limite della tecnocrazia sta nella
scarsa flessibilità dei suoi modelli: sembra un paradosso visto che
la flessibilità è uno dei mantra della tecnocrazia. La tecnica al
potere predica flessibilità agli altri, ma in sé la tollera molto
poco: non è capace cioè di includere modelli che non le
appartengano.
Il risultato è, altro paradosso, un
continente molto debole. Un continente fiacco, privo di energie e
molto vecchio. Un continente senza sangue: perché continua a
perpetuarsi nella stessa identica sequenza di concetti chiave:
terzomondismo, politicamente corretto, difesa a oltranza del profitto
immotivato, assenza totale di un vero orizzonte etico (i soldi come
equivalente generale dell'etica non soddisfano quei bisogno latenti
che non possono essere comprati).
Questa confusione trova un surrogato
nel combattimento in slogan, training aziendali, corsi
automotivazionali, mentre è il fronte interno che cede, sia per
esempio nell'incapacità di gestire in modo razionale la questione
immigrazione, sia nel lasciare che i membri della comunità che
costituiscono l'Europa non abbiano i mezzi necessari per formarsi e
accedere ai migliori strumenti formativi e intellettuali.
L'espressività guerresca e un po'
cialtrona che è entrata nel linguaggio comune segnala come la
questione del combattere – che è un concetto chiave della storia
europea – sia diventata materia da training aziendale e slogan sui
post dei social network. E allora tutto diventa “lotta”,
“battaglia”, “competizione”, “guerra”, “nemico”,
“vittoria”, “ottimismo”, “non mollare mai”.
Peccato che questa narrazione –
filosoficamente inesistente e moralmente equivoca – generi vittime
proprio tra coloro che più la sostengono: quella che una volta era
la classe medio bassa. Piccola borghesia, lavoro salariato, piccoli
commercianti. Che per limiti culturali, conformismo e consumismo
eletti a metro della vita pubblica (un modello inconscio introiettato
con tanta forza da essere diventato ormai un archetipo inamovibile)
gioca la sua vita sul filo di un lessico violento e individualistico,
erodendo le fondamenta di quella coesione che per un breve lasso di
tempo è stata (fu) la sua forza.
I rapporti di forza di una società
della larvata ma largamente accettata diseguaglianza determinano un
ritorno ad una fase aristocratica e arcaica della società europea:
un modello feudale, basato essenzialmente sul privilegio e sul
mantenimento del privilegio da parte di tale gruppo di potere. Un
potere spesso ereditato e corporativo, che passa di padre in figlio
intatto o ampliato, dove il confine tra risorsa pubblica e privata
sfuma nell'intreccio perverso tra interesse appunto pubblico e
privato. In poche parole: se con i miei soldi posso esercitare una
forma più o meno lecita di pressione su soggetti pubblici o privati
per generare altri soldi dove finiscono i miei soldi e dove
cominciano quelli della comunità che paga le tasse?
Scrive Herbert Marcuse nel dimenticato
Eros e Civiltà: Il dominio è ben diverso dall'esercizio
razionale dell'autorità. Quest'ultimo, che è inerente a ogni
divisione del lavoro in ogni società, proviene dalla consapevolezza
ed è limitato all'amministrazione di funzioni e di ordinamenti
necessari al progresso dell'insieme. Invece il dominio viene
esercitato da un gruppo particolare o da un individuo particolare
allo scopo di mantenersi e rafforzarsi in una posizione privilegiata.
La struttura sociale di oggi ha in
qualche modo digerito questo assunto, dandolo ormai per scontato. La
partita si gioca su un tavolo diverso e in ambiti molto più sottili.
Liquefatti i diritti e posto un confuso senso di individualità al
primo posto (del tutto irrilevante, visto che il singolo non può
fare niente su un piano collettivo) ne consegue un passaggio,
cruciale: la lotta tra poveri.
La rimanente e marginale parte delle
risorse economiche va suddivisa tra un numero crescente di persone:
gli scarti per gli scarti. Messa in questi termini la situazione
suona cruda ed è per questo che la narrazione politica interviene
ancora una volta, donando una terminologia appropriata anche a
questo: iper-responsabilizzazione individuale e lessico da guerra da
autobus. Piccoli guerrieri uno contro l'altro, in una lotta
darwiniana per la sopravvivenza, a colpi di rinuncia (di diritti, di
soldi, di accesso alla cultura, di possibilità sociali in genere).
Siamo capaci di indignarci per i
diritti degli amici animali, ma non per il fatto che nascere in un
posto o l'altro dell'Unione Europea (spesso differenze di poche
centinaia di metri, di quartieri) determini un gap di possibilità
economiche insostenibile e tendenzialmente sempre maggiore, esteso,
come si è già detto, a tutto: istruzione, salute e lavoro.
Libero arbitrio? Il tema è abnorme.
Certo che, come già rilevava Foucault, è difficile parlare di
libertà nel momento in cui il Potere (oggi quasi esclusivamente
economico) agisce in ogni ambito della società, attraverso
molteplici forme di micropotere e altrettanti accorgimenti di
inquadramento operati tramite mass media e scolarizzazione di base.
Se una volta l'aristocrazia era fondata anche su valori –
ovviamente relativi all'epoca – come virtù militare, conoscenza,
prestigio personale, oggi tutto questo è stato surrogato
nell'infinito equivalente generale del denaro, che assolve a funzione
di prezzo e valore in un colpo solo, emendando l'intelletto dallo
sforzo della differenziazione.
Dove la libertà allora? Se ne parla in
continuazione, ma in fondo in modo sterile. Se, come diceva
Baudrillard, Dio non esiste e quindi è dappertutto, allo stesso modo
potremmo azzardarci a dire che la libertà è costantemente negata e
quindi esaltata in modalità permanente. Sei libero di fare tutto, ma
non hai i mezzi materiali per fare niente: la libertà è il fantasma
di una scelta. Uno dei tanti valori fantasma proposti da una società
che non solo non crede più – letteralmente – a niente se non al
denaro come valore in sé e alla performance come suo profeta, ma che
non ha più nemmeno i mezzi intellettuali per pensarsi in modo
critico. Perché ogni critica parte da un presupposto etico, cioè da
un'analisi dei dati materiali sullo sfondo di una conoscenza che
tenga conto anche della qualità delle scelte e non solo della
quantità.
Il brivido del niente sta anche nello
smarrimento di uno scenario di senso. Se tutto è intercambiabile e
in fondo non esistono differenze degne di essere apprezzate se non in
termini economici, ne consegue che anche i rapporti umani
soggiacciono alle regole di mercato. Spesso è stato così nella
Storia, ma non è sempre e solo stato così. Il punto è che
oggi questo nichilismo dell'ottimismo è diventato il fondamento
stesso dell'Occidente. Nel tentativo di fissare le dinamiche dei
rapporti in un algoritmo dei consumi, si è di fatto istituita una
nuova ideologia, che non ha niente da invidiare alle religioni: è un
Moloch indiscusso e venerato, perché posto al di fuori di
razionalità e critica: è la tecnocrazia.
E uno dei deliri di questa religione
sta proprio nel voler fare ammettere come razionale e logico il fatto
che una percentuale numericamente irrilevante di popolazione
determini, attraverso un potere economico, chiuso e sostanzialmente
ereditario, le scelte e la libertà di tutti gli altri.