E' cominciato con la Russia, è proseguito con India, Cina, Stati Uniti, Grecia, Cipro, Gran Bretagna, Germania, Turchia, Serbia, Belgio, Olanda e forse dimentico qualche paese. Questo mestiere di magister vagans dell'italiano mi ha portato a contatto con svariate nazionalità e lingue, realtà a volte complesse, con sfumature extralinguistiche di non immediata comprensione per me nonostante a certi livelli professionali la globalizzazione dei comportamenti abbia indubbiamente appianato tante differenze. Oltre ad una responsabilità abbastanza pressante che avverto in quanto rappresentante dell'italianità - delle sue meraviglie e mio malgrado delle sue parecchie storture - un'altra riflessione che mi viene da fare riguarda l'aspetto più connaturato all'insegnamento: la sua funzione comunicativa. In senso storico trasmettere una lingua e con essa una ingente fetta di civiltà significa prima di tutto fare delle scoperte personali: getto la maschera: sono sicuramente più le cose che ho imparato delle poche e povere cose che ho potuto insegnare. Ho imparato dalle persone con cui sono entrato in contatto, che mi hanno raccontato il loro mondo e le loro radici, e ho imparato alcuni elementi della natura profonda del linguaggio. Aveva ragione Foucault: ogni lingua reca impressa la storia di un popolo. Dice delle sue migrazioni e delle sue traversie, della sua lotta per sopravvivere e della casualità del fato. Dice di una struttura primitiva che rimanda alla notte dei tempi, ad una pangea del linguaggio a cui tutti dobbiamo in qualche modo richiamarci: segni, fonemi e graffiti ancestrali che accomunano la razza umana nel suo istinto di raccontarsi. Penso che questa consapevolezza sia uno dei principali insegnamenti che ho ricevuto in questa esperienza: un dono non quantificabile e non inseribile in un curriculum ma che ha avuto su di me un valore fomativo e ha contribuito non poco a togliermi di dosso alcune patine prinvinciali e alcuni pregiudizi. E' un dono che però comporta anche delle responsabilità. In primo luogo un'attenzione ulteriore al linguaggio e alle sue dinamiche, in secondo luogo la necessità di offrire un lavoro sempre più accurato e corretto, che tenga conto sia della comunicazione più immediata sia, per quanto possibile, della motivazione che sta a monte di certe differenze e di certe analogie. Non so se tutto questo sia catalogabile come "filologia", ma so che posso chiamare solo così il rapporto tra la scoperta del segno e la ricaduta che questo segno ha sulla nostra vita quotidiana, specie quando questa è incontro nella diversità e nella diversità diventa luogo di crescita.
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