Frank Schirrmacher, orrori da un presente distorto


Moralmente, in un mondo contro il quale non è possibile alcuna obiezione, ognuno deve cercare la "colpa" in se stesso. E' questo il nucleo della nuova ideologia ed è questa l'essenza della società del tipo the winner takes it all: ognuno può essere tutto. Diventare una star di YouTube, una scrittrice di bestseller come Cinquanta sfumature di grigio, una star da milioni con una buona trovata o un video, fare soldi e comperare case ipotecando quello che non si possiede ecc. Solo quando tutti ci credono e sono disposti a sgombrare il campo senza accusare nessun altro oltre se stesso e la sfortuna, può davver cominciare il grande giro di poker. 

Si è solo ciò che si fa, si fa solo ciò per cui c'è un mercato e c'è solo un mercato per ciò per cui si viene pagati: è il mantra della nuova identità.

L'"apprendimento per tutta la vita" è stato per secoli una banalità, prima di essere reinterpretato da Wall Street, e ora significa "adattarsi in qualsiasi momento a nuove condizioni dei mercati". Economia del sapere, società dell'informazione e dei servizi, Io spa, iniziative di eccellenza sono concetti inflazionati e vaghi, di cui oggi vengono nutriti i nostri pensieri con un fine ben preciso.

Frank Schirrmacher, Ego. Gli inganni del capitalismo.

Brevi stralci da un saggio denso e importante di Frank Schirrmacher, intellettuale tedesco scomparso prematuramente l'anno scorso. Un saggio per immagini e suggestive reinterpretazioni storiche, con accostamenti e paragoni spesso spiazzanti. Dall'introduzione dell'automa nelle corti d'Europa nel Settecento all'egemonia culturale dei social brand a base algoritmica: tutto concorre all'annientamento dell'uomo. Anzi, meglio: alla sostituzione dell'uomo con un suo avatar: Numero 2, l'iperefficiente, interessato, razionale, egotico doppio che vive in ciascuno di noi, foraggiato dall'applicazione seriale di social media fondati su modelli matematici la cui formula base è esaltare l'egotismo di ognuno. Un processo non tanto cinico, quanto perfettamente razionale. L'avidità è prevedibile e calcolabile, insomma risponde ad una logica. Tanto vale che l'umanità si adegui a questo. Schirrmacher osa: si tratta di una strategia studiata a tavolino, visto che è molto più comodo piegare l'uomo al modello che inventarsi un modello che spieghi l'uomo. Un'inversione che racconta la paurosa vicenda di questi ultimi anni, quando questo processo di meccanicizzazione ha raggiunto il parossismo e la società occidentale si è ritrovata inghiottita in una crisi economica e morale senza precedenti, senza spiegazioni convincenti e soprattutto senza alcuno strumento culturale adatto. Le colpe sono diventate appannaggio del singolo: pensa per te, che al resto ci pensiamo noi. Un "noi" macchinale e distopico degno di una visione di Philip K. Dick, non a caso citato dall'autore come sorta di veggente del contemporaneo. Sono tanti i nodi analizzati dallo scrittore tedesco, e tutti nevralgici. C'è molta filosofia non detta, dall'Hegel della morale degli schiavi al nichilismo occidentale di Heidegger: la schiavitù come modello di massima flessibilità condiviso e difeso dagli stessi schiavi, che con essa difendono il pezzo di pane dato loro dal padrone (e in questa umiliazione ormai accettata si misura tutta la disfatta dell'Occidente), e il nichilismo come convitato di pietra, come modello oscuro che ispira un complesso sociale ed economico votato, si può ormai dirlo, al nulla più assoluto. Consumo come ragione di esistenza, lavoro come ragione di consumo: Marx è polverizzato da un corso degli eventi andato tanto più in là del Capitale classicamente inteso. Parole d'ordine, invenzioni di marketing spacciate per filosofia platonica, suicidi economici raccontati come buonsenso: nel marasma del relativo e dell'immateriale tutto diventa possibile, anche che la gente ci creda davvero. Di essere responsabile dei mutamenti macroeconimici, che la crisi economica non abbia cause, che le istituzioni scolastiche, politiche e informative siano le colonne portanti di un progresso disinteressato. E' radicale Schirrmacher, ma nell'acutezza di certi passaggi fa quasi venire i brividi, perché sta parlando di noi e dei nostri anni, vissuti con tanta leggerezza tra una serie tv e una fotografia su un social network, ignari che i nostri dati sono tracciati secondo per secondo e che la nostra vita è disponibile al migliore offerente per piazzare prodotti o creare bisogni che non abbiamo. Ma anche per assumere o licenziare dipendenti, emarginare le voci dissonanti e proporre agli elettori i candidati più graditi. E' un gioco, anzi, è la Teoria dei giochi: questo teorema socio-matematico che ci sottrae tempi e spazi di identità e di scelta. Con il nostro consenso disinformato o inconsapevole. Una rete in cui siamo tutti intrappolati secondo la sinistra eppure straordinariamente verosimile teoria di Schirrmacher. Tracciati, analizzati e incasellati da qualche parte, nella più totale illusione di libertà. Anche io che sto scrivendo, anche tu che stai leggendo.

la filologia come responsabilità

E' cominciato con la Russia, è proseguito con India, Cina, Stati Uniti, Grecia, Cipro, Gran Bretagna, Germania, Turchia, Serbia, Belgio, Olanda e forse dimentico qualche paese. Questo mestiere di magister vagans dell'italiano mi ha portato a contatto con svariate nazionalità e lingue, realtà a volte complesse, con sfumature extralinguistiche di non immediata comprensione per me nonostante a certi livelli professionali la globalizzazione dei comportamenti abbia indubbiamente appianato tante differenze. Oltre ad una responsabilità abbastanza pressante che avverto in quanto rappresentante dell'italianità - delle sue meraviglie e mio malgrado delle sue parecchie storture - un'altra riflessione che mi viene da fare riguarda l'aspetto più connaturato all'insegnamento: la sua funzione comunicativa. In senso storico trasmettere una lingua e con essa una ingente fetta di civiltà significa prima di tutto fare delle scoperte personali: getto la maschera: sono sicuramente più le cose che ho imparato delle poche e povere cose che ho potuto insegnare. Ho imparato dalle persone con cui sono entrato in contatto, che mi hanno raccontato il loro mondo e le loro radici, e ho imparato alcuni elementi della natura profonda del linguaggio. Aveva ragione Foucault: ogni lingua reca impressa la storia di un popolo. Dice delle sue migrazioni e delle sue traversie, della sua lotta per sopravvivere e della casualità del fato. Dice di una struttura primitiva che rimanda alla notte dei tempi, ad una pangea del linguaggio a cui tutti dobbiamo in qualche modo richiamarci: segni, fonemi e graffiti ancestrali che accomunano la razza umana nel suo istinto di raccontarsi. Penso che questa consapevolezza sia uno dei principali insegnamenti che ho ricevuto in questa esperienza: un dono non quantificabile e non inseribile in un curriculum ma che ha avuto su di me un valore fomativo e ha contribuito non poco a togliermi di dosso alcune patine prinvinciali e alcuni pregiudizi. E' un dono che però comporta anche delle responsabilità. In primo luogo un'attenzione ulteriore al linguaggio e alle sue dinamiche, in secondo luogo la necessità di offrire un lavoro sempre più accurato e corretto, che tenga conto sia della comunicazione più immediata sia, per quanto possibile, della motivazione che sta a monte di certe differenze e di certe analogie. Non so se tutto questo sia catalogabile come "filologia", ma so che posso chiamare solo così il rapporto tra la scoperta del segno e la ricaduta che questo segno ha sulla nostra vita quotidiana, specie quando questa è incontro nella diversità e nella diversità diventa luogo di crescita.

ipotesi per un saggio

Ricomincio a scrivere in modo pubblico perché vorrei provare a ragionare ad alta voce su un argomento che vado sviluppando da circa quattro mesi in un quaderno rosso a spirale: il luogo comune. Prendo appunti, note di lettura, riflessioni personali. Che cos'è il luogo comune? La meta di un viaggio o la zona grigia in cui abita la distrazione? Finora ho trovato più domande che risposte. Risposte zero per la precisione, o forse mezza: sotto al fogliame della banalità si nasconde sempre una forma occulta di Potere. No, niente teorie della paranoia. Il Potere è quello che serviamo tutti i giorni, anche quando siamo convinti di fare quello che ci pare: sono le informazioni che vengono colate goccia a goccia nelle nostre vene con l'intento di renderci brave persone. Famiglia, Scuola, Istituzione. C'è una catena di montaggio della banalità che ha connotati formativi. Il buonsenso comune che sostituisce il ragionamento critico e surroga la capacità di discernere è la materia trascersale della formazione di Stato o se si vuole il cemento stesso di ogni patto sociale. Da qui, forse la natura ambigua del Banale. Non solo sconcerto filosofico di fronte al male che si incarna in una pratica impiegatizia, ma Male che diventa Bene perché così fan tutti; Male che diventa Bene perché "così si dice" e "così si fa". Quanto sia necessaria questa banalità affinché il concetto stesso di Società sia possibile è una delle domande inquietanti che agitano il percorso di questo libro non libro che ancora non ha preso forma. Ci sono degli elementi cardine attorno a cui ho sviluppato delle piccole ossessioni personali; sono parole calde, mantra, correlativi oggettivi che si annodano nelle ipotesi che passo al setaccio: Conformismo, Massa, Opinione. C'è un filo rosso che lega la possibilità di dire la propria con le parole a vanvera e la sindrome del gregge con la relatività di ogni Legge. Assiomi sacri sessant'anni fa che oggi sono il Male Assoluto, fondamenti sociali che oggi non contano più niente. Il tutto fuso nella retorica che ogni Stato impone alla massa come nucleo fondante di ogni realtà. Dalla cultura orale del periodo mimetico/poetico alla retorica della Famiglia: due estremi che a migliaia di anni di distanza pongono la verità costitutiva della vita nel culto della tradizione. E tutto questo senza una vera ragione per scrivere e senza un pubblico, ma anche senza un interruttore che possa interrompere questo ammasso di congetture.