due chiacchiere su Guerra e Pace



Affrontato per la prima volta a trent'anni Guerra e Pace. Pensavo di dover scalare una montagna e invece mi sono trovato in una sconfinata pianura con un buon gruppo di amici: principi, conti, contesse, militari, gente del popolo, russi, francesi, tedeschi, austriaci e anche qualche italiano. La storia più o meno è nota: periodi di pace e di guerra tra uno scontro con Napoleone e l'altro, descrizioni minuziose di battaglie e strategie, chiacchiere fumose nei ricchi palazzi moscoviti e in generale il tempo che passa, qualcuno muore, qualcuno cambia, qualcuno resta tenacemente se stesso. Ho affrontato questa lettura con tutta la semplicità di cui dispongo, senza pretendere di andare oltre il significato delle parole e senza mettere dei filtri tra me e il testo. Come sempre più spesso faccio ho anche lasciato perdere l'introduzione in un primo momento, proprio per presentarmi di fronte alla lettura nel modo più spoglio e immacolato possibile. Non sentivo il bisogno di adattare Tolstoj a dei preconcetti o ancora peggio a delle teorie letterarie; ho preferito vivere il contenuto pagina per pagina fino a scoprire che Guerra e Pace è proprio questo: il gusto del racconto senza doppi fini. Un romanzo mostro che quasi nessuno ha letto in epoca recente, ma che nel passato ha accompagnato generazioni di lettori che concepivano la letteratura ancora come una finestra sul mondo, un modo per passare il tempo, ma ancora di più per riflettere sul tempo, sul grande mistero codificato poi da Proust di cui Tolstoj è un precursore meno cerebrale e più sanguigno. 
 

Altro uovo di Colombo: per addentrarsi in Guerra e Pace non c'è bisogno di nessun armamentario filologico, perché questo libro è un feuilleton, un fogliettone a puntate uscito in rivista e dato in pasto ad un pubblico borghese in grado sì di leggere, ma di certo poco avvezzo ai ghirigori tecnici che una certa cattiva critica novecentesca avrebbe usato per etichettare tutto e tutti. Tolstoj è aperto, anche quando denuncia le storture e gli opportunismi della storiografia classica: è un maestro nel demitizzare le incrostazioni verbali che l'occidente chiama Storia. La sua è una rivisitazione puntigliosa e scomoda, che si fa largo tra una porzione e l'altra di narrativa pura: Tolstoj è narratore, ma anche filosofo, storiografo, educatore, maieuta della coscienza. Appartiene ad una generazione in cui il romanzo rappresentava ancora una possibile summa della conoscenza: il luogo dove l'intelletto volgarmente detto umanistico ma anche scientifico potesse trovare la sua sintesi plastica e, perché no, divulgativa. C'era un pubblico di lettori da informare in qualche modo. Il romanzo aveva cioè una funzione diversa rispetto ad oggi: un'istanza civile e appunto divulgativa che oggi fatichiamo a comprendere. Quelle che oggi in Tolstoj chiamiamo, con un orrendo termine ginnasiale, digressioni, erano in realtà lo spazio entro cui l'autore inquadrava gli avvenimenti narrati in un'ottica storica e filosofica, cioè il momento della sintesi offerta al lettore.
Possiamo poi discutere sulle influenze culturali di Tolstoj, e su certi aspetti della sua filosofia che oggi possono apparire ingenui, o risultato di un accanito bricolage filosofico tanto tenace quanto un po' naif in certi passaggi, ma tutto questo recupera una misura comprensibile se ci rifacciamo al contesto in cui questa comunicazione è avvenuta: il feuilleton.
Non so quale senso possa avere oggi rileggere Tolstoj. Se accettiamo per un attimo il vincolo utilitaristico a cui è legata la letteratura di consumo o lo scempio scolastico universitario che si compie a danno della letteratura, allora no. Non ha senso leggere Tolstoj. In un mondo in salsa talent, Guerra e Pace non ha cittadinanza. Perché è terribilmente lungo, di genere inclassificabile, con scene torrenziali inutili ai fini della narrazione. E poi le riflessioni dell'autore, buttate lì ogni tot pagine a rallentare un ritmo già parecchio rilassato. Se ci liberiamo di queste scorie allora possiamo provare a considerare questo libro come un amico: un po' démodé e teneramente dissennato ma capace di fascini radicati e nascosti, gesti di dinamica e ampia generosità che ci lasceranno stupefatti. E' un libro che tiene compagnia. Un dialogo attraverso i secoli e mi permetto di dire tra gentiluomini. Una scampagnata a cavallo, sciabola in pugno, a ritrovare le origini del contemporaneo e allo stesso tempo gli ultimi fuochi di una civiltà ormai scomparsa.